Marce
E' una marcia del ritorno alla propria terra. E ora, alle macerie: di Gaza City, di Jabalia, di Beit Lahia, di Beit Hanoun.
Il fiume di centinaia di migliaia di palestinesi (c'è chi dice un milione) che si è incamminato verso il nord della Striscia di Gaza, dice molte cose. E' una marcia parallela, moltissimi a piedi, chi può in macchina. In macchina più verso l'interno della Striscia, lungo la strada che unisce nord e sud, la via Salaheddin. A piedi lungo il mare, e chissà se quella strada ripercorre esattamente l'antica Via Maris, la via maris vecchia di migliaia di anni, la via costiera che ha segnato la storia del Mediterraneo orientale.
Per chi ha seguito la rivoluzione egiziana del 2011, la foto della massa che riempie la strada ricorda il Ponte dei Leoni, al Cairo. Una immagine iconica che ha segnato la storia della rivoluzione di Tahrir: in quel momento, per la folla sul ponte che non indietreggiava, si è compreso che il 'popolo chiedeva la caduta del regime', come recita lo slogan di Tahrir.
Il popolo - inteso come popolazione, persone, comunità - può essere un attore politico, un attore non statuale che segna alcuni momenti determinanti della Storia. Così è per la 'marcia del ritorno' verso il nord della Striscia di Gaza, dopo 15 mesi di genocidio e di sofferenze indicibili (che non sono finite, ahimé). Non credo sia solo un segno dell'appartenenza a una terra, di una relazione con lo spazio considerato lo spazio in cui si nasce e si cresce. Non credo sia una vittoria, dopo così tanta sofferenza. Credo abbia a che fare con un senso prepolitico e politico dei propri diritti. Un gesto non subalterno, un gesto di dignità.
Paola Caridi
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